L'Inverno del 1788
PER LA PARTENZA DEL REGGIMENTO DI CHIOGGIA DEL NOBIL UOMO GIULIO PANCIERA
luctus, ubique pavor,
et plurima mortis imago.
Perchè si viva alla mia mente splendi
O dei passati orrori idea funesta?
Ah se cinta di lutto al cor mi scendi
E mi fai l’alma lagrimosa e mesta,
Pur la diletta luce anco raccendi
Dell’astro che calmò l’aspra tempesta.
Astro divino a te sarcro il mio canto,
E non so nel cantar frenare il pianto.
Nè lo frenate in quel pietoso core
Al truce aspetto dell’affanno nostro,
Voi stella di benefico splendore,
Donna gentile onor del sesso vostro:1
Deh non v’incresca se il fatal dolore
Vi rinnovello coll’ardito inchistro;
Che mentre il duolo nelle carte imprimo
Del vostro Sposo la virtù sublimo.
Torbino, immenso, impenetrando velo
Copria d’intorno la cerulea volta,
E vietando l’impero al Sole in cielo
Tenea la terra fra la notte avvolta;
I rami già pria del nemico gelo
Vedeano al suol l’arida spoglia e folta;
Squallido il campo, isterlito il prato,
Caliginoso l’aere, li mar turbato.
Caldo e pesante sibilava un vento
Che pregno d’insensibile veleno
Fioco veniane, e riversava lento
Il ristagnato umor, di ch’era pieno,
Parean stemrarsi in liquido elemento
I corpi, e ansante lena uscia dal seno.
L’aer compresso qual de infetta nebbia
Grava denso gli spirti, e l’almba annebbia.
S’apre la nube, e dall’aperto grembo
Scende incessante interminabil pioggia,
Che or rar a stile del disciolto lembo
Cheta cheta sul vento or scende or poggia;
Ora scrosciando, qual da estivo nembo,
Sgorga di fiume impetuoso a foggia,
La terra inonda, ed allagando appare
Sopra la terra straripato il mare.
Sente il nuovo vigor che forte arriva,
Il fervido, spumante, altero fiume,
É vano al suo furor argine o riva,
Ch’ei la soverchia coll’ondose spume.
Discende al mar, ma la conca nativa
Gli niega il mar ripieno oltre il costume,
Ei respinto dal mar batte la sponda,
Quella s’atterra; ei le campagna inonda.
Corrente, forsennato, palpitante
Vidi il cultor pel desolato campo
Ora tentare colla man tremante
All’impeto dell’onda un vano inciampo,
Or dalla vasta piena circondante
Cercar fuggendo alla sua vita scampo,
Or commosso da stimolo più forte
Volar de’ figli ad impedir la morte.
Padrei del ciel, gridai, Padre del mondo
Volgi benigno un guardo ai nostri affanni,
Sollevaci dal capo il forte pondo
Della tua man, che aggrava i nostri danni;
Chiudi dell’acque l’inesausto fondo,
Schiudi a salubre vento i freddi vanni;
Un solo cenno tuo fuga i perigli:
Soccorrici, Signor; siam pur tuoi figli.
Sull’ale de’ miei fervidi desiri
Volarono i miei voti all’alto trono:
Fa cenno Iddio; tremano gli altri giri;
Chiuse le fonti delle nubi sono.
Già un vento salutevole respiri,
Che rotando qual turbo agile, e prono
Assorbe tutti nei rapidi errori
De’ corpi, e della terra i pingui umori.
Ma che tosto converso in bianca ciocca
Rigurgita l’umor dianzi stemprato,
Già neve dirottissima trabocca,
Già neve sbuffa l’Aquilon gelato;
Ecco più densa la tempesta fiocca,
Ecco oppresso di neve il colle e ‘l prato,
Guardi d’intorno, e agli occhi tuoi mal credi;
Neve è ciel, neve è terra, altro non vedi.
Cade su i cori un agghiacciato orrore
Alla del mondo algente, orrida vista,
Gela l’egro mortal pien di timore;
Mirando i campi il buon cultor s’attrista
Chiuse le belve fuggono l’albore
Della Natura assiderata e trista;
Giugne nel fondo al liquido elemento
La neve ad agghiacciare il muto armento.
Negli orti, ove la mano amica
Dell’arte industre con solerte curte
Costringe ancor nella stagion nemica
A gemrmogliar le sterile Natura,
Contro la lunga del culor fatica
La neve, il gelo, l’Aquilon congiura;
Ei lagrimoso le fatiche, e insieme
Mira distrutta la crescente speme.
Invano ardimentoso infra i perigli
La sua barchetta il pescatore avventa
Per ristorare i desolati figli
Nella fame crudel che li tormenta;
Misero pescator! oh quai consigli
L’amor paterno, e l’indigenza tenta!
Misero pescator! Trista conforte!
Oh desolati figli! oh dura sorte!
Sciogli, infelice famigliuol,a il freno
Al cor nel duolo esiziale afforto,
Nei stridi, nei sospiri, nei pianti almeno
Quel che ti resta sol cerca conforto;
Unisci al pianto, che indigenza in seno
Ti aduna, un pianto al genitor già morto;
Chi darà, se il dolor non tronca il corso
A sì misere vite alcun soccorso?
Padre del ciel, gridai, deh! volgin ancora
Un dolge sguardo ai miseri mortali;
Un solo soffio di tua bocca or ora
Sciolga i pungenti della neve strali.
Sorga, deh! Sorga una lucente aurora,
Tepido Sol dilegui i nostri mali,
E l’aere sfavillante in lieti modi
Un inno suonerà delle tue lodi.
Dissi; e una luce porporina, e pura
Irradia tutto il liquido sereno,
Che riflettuta dalle bianche mura
Mi balenò rallegratrice in seno;
Non così vago ad avvivar Natura
Il varo-pinto d’Iride baleno,
Mentre l’aurate nuovole divide,
Curvo sereno ad ogni core arride.
Misero! ahimè che un gelo, e più tenace
Stringe il terren di rigide catene;
Nè fime, nè laguna al mar in pace
Conduce il piè, cui duro fren rattiene,
Del vitale calor spenta la face
Quasi si gela il sangue entro le vene;
E screpolato in cento fessi il piano
Soccorso chiama, ma la chiama invano.
Mugghia, s’addoppia il vento, e la tempesta,
Cozzano i nugoloni imperversando,
Quanto s’abbatton più, tanta più appresta
Forza alle nubi il vento infuriando;
Pare al fracasso che l’urto vi desta
Che schiere d’ombre arrutoin asta, e brando;
Scoppiano i venti, sfiancano le rupi,
Rimbobano le grotte, e gli antri cupi.
Sentel e infuria il mar, sorgono i flutti
E spruzzanti flagellano le sponde,
Ognun tentando sovrastar a tutti
Sorge, urta, preme, s’imbianca, s’asconde,
S’alzano i nuovi su i primi distrutti;
Rimugge il mar dalle cave profonde:
Fuggi, deh! fuggi o nave: ah! sei vicina
a soggiacer alla fatal ruina.
Ella traballa, e sulle vette ondose
Poggia, e ricade, ora sublime, or bassa.
Già si rinversa, e già la piena ascose
Il tuotator, cui forte innalza, e abbassa;
Ferma una mano ad un’antenna ci pose
L’altra arruota senz’arte inferma, e lassa;
Ei leva gli occhi al ciel, soccorso invoca:
L’onda diperde la sua voce fioca.
Tutto l’orror della Natura, tutto
Il fremito del mar, de’ venti l’ira,
Del cielo lo sdegno, della terra il lutto
Contro l’oppressa umanità cospira.
Quali non fosse ogni altro ben distrutto
Turba di morbi intorno a noi s’aggira,
Ma dei morbi sul corpo il grave danno
Non può eguagliar dell’anima l’affanno.
Smunta la fame su mal fermo piede
Il vuoto corpo traendoli dietro
Slancia sanguigni sguardi, in cui riside
Terror di morte tenebroso e tetro;
La disperazion che in cuor succede,
All’apparir del minaccioso spetro
Colpa i spaventi, i fremiti, i tumulti,
Gli urli, le strida, i spasimi, i singulti.
Ecco dipinta la sparuta Fame
Nel languor d’un’esamine vecchiezza
Ecco dipinta la sua faceia infame
Nello smorto pallor di giovinezza;
Negli occhi, nelle fronti ecco le brame
Rimiro impresse della sua fierezza;
Tutto implora pietà, soccorso prega;
Tutto pietà, tutto soccorso niega.
Chi a sì fiero spettacolo mi toglie?…
La madre, i figli seminudi, smorti
Chieder invan chi alle mortali doglie
Un tenue almeno sollevamento apporti
Mentre in pianti la madre si discioglie
Stretti i figli addoppiare i loro trasporti,
Stracciarsi il crin, battersi il seno; i Cieli
Chiamar ingiusti, e gli uomini crudeli.
Indi rivolti a solo ben che avanza
Nell’amarezza delle pene estre,
Morte invocar, com’unica speranza
Che tronchi colla vita i mali insieme.
MA col suo aspetto, e colla sua tardanza
Ella cresce il terror, nega la speme,
Nè tronca i mali, ma li aggrava intanto.
Ah se non piangi a che mai servi il pianto?
Non più, non più dal cielo soccorso, aita
Chiedere io volli, o disperato, o alter;
Ma dal dolore l’anima ferita
Si rivolgea contro il celeste impero.
Quando da nube di foco vestita
Tuonando folgorò sul mio pensiero;
Ah! parmi ancora di cercar lo scampo
Dal forte tuon, dallo strisciante lampo.
Frena, piombommi questa voce in core
Frena, audace mortal, l’insano orgoglio,
Nè spingere il pensier del tuo furore
Fino a chi siede sull’eterno foglio:
Talor per sublimar divin valore
Manda alla terra il Ciel danno e cordgolio;
Allor di consolar i figuoi suoi
Il celeste piacere dona agli Eroi.
Il suon dei venerandi arcani detti
Or mi consola, or mi confonde, e atterra,
E nel tumulto di contrari affetti
Chino la fronte, e fisso i lumi a terra;
Poi li sollevo, e fra i ferali oggetti
Mentre la vista mia si perde, ed erra
Ecco nuovo spettacolo repente
Di gioja e di stupor m’empie la mente.
Giovane Eroe volge pietoso sguardo
D’amore, di dolor, di tenerezza,
Lascia l’aurate foglie, e’l piè gagliardo
Spinge ove il chiama la comun salvezza,
E all’egro, al meschinel stende non tardo
La man pietosa a sollevare avvezza.
Così nel bujo, e nel furor del mare
Astro proprizio al navigante appare.
Ora terge le lagrime agli affitti,
Ora diffonde agl’indigenti l’oro,
Or toglie i disperati ai lor delitti,
E loro versa in sen pace, e ristoro,
Or al Commercio animator tragitti
Riapre d’instancabile lavoro;
E tentando ogni, togliendo ogni onta,
Tutto l’orror della Natura afronta.
Indi, volate, affettuoso grida,
Tosto d’intorno, o cari miei, volate
Ove il cor vostro, ove il mio cor vi guida,
E la fuggente Copia riportate,
Fortunati mortali oh quai vi affida
Il suo provvido amor cure beate!
Volate, e gusterete insiem con Lui
Il dolce ben di consolare altru.
Ecco tra cento nerborute braccia
Su cento gravi cigolanti ruote
Rosea, ridente, e generosa in faccia
Il trionfal destrier la Copia scuote.
La smorta Fame allor trema e minaccia,
Ella l’imbelle mostro urta, e percuote:
Segue il Commergio, e già diffonde intorno,
L’operoso suo genio, e vuota il corno.
GIULIO accoglie la Copia, e GIULIO è degno
D’accompagnar la vincitrice Dea,
Che conducendo de’ suoi genj il regno
Il meschi co’ suoi doni allegra e bea,
Egli prescrive ai benefizj il segno;
Ella li sparge poi per man d’Astrea;
Corre la folla desiosa, e stretta
d’intorno a GIULIO, e i cenni suoi rispetta.
Scosso eccitato al giubilo improvviso
Il guardo del dolor dubbioso s’alza;
Dolce commosso dal divino viso
In ogni petto il cor di guadio balza,
Dipinto ognun di lusinghier sorriso
Lieto la fronte non più mesta innalza;
O se rosseggia ancor qualche pupilla
Non è di duolo, è di letizia stilla.
Mentre la Copia i miseri, soccorre,
La smorta speme lusingando avviva;
Un raggio di letizia la precorre,
Che ricade sull’anima giuliva,
Sopra ogni lingua un lieto Viva scorre,
Poi va salendo al cielo il lieto Viva;
Per ogni canto la Città festeggia,
E il gran nome di GIULIO intorno eccheggia.
Viene ai plausi sensibile festosa
Liquida ai lidi saltellando l’onda;
Sgombrato il vel che la teneva ascosa
L’aria sfavilla lucida gioconda;
La bella fronte il Sole alfin giojosa
Di luce amabilissima circonda;
Dalla stellante sua volta serena
Sorride il Cielo a sì beante scena.
Stella resulsit
Defluit saxis agitatus humor,
Concidunt venti, fugiuntque nubes
Et minax (fic Di voluere) ponto
Unda recumbit.